Da Spotify cinquanta album britannici tra i più importanti e significativi della scena sonora mondiale per mettere alla prova le qualità stereofoniche dell’impianto Hi-Fi
Mettere alla prova il proprio impianto stereo con un segnale streaming come quello di Spotify farà anche storcere il naso e, a meno di non essere fortunati possessori di abbonamenti che aprono a flussi dati privilegiati, il risultato non è detto possa appagare. Recentemente abbiamo approfondito il discorso servizi streaming, dove Spotify non è risultato certo tra i migliori fornitori di musica liquida ad alta risoluzione ma resta pur sempre un hub musicale con cui potersi confrontare. Nello specifico parliamo di file compressi AAC (Advanced Audio Coding), sistema in parte superiore all’MP3 per resa e spazio occupato: ricordando che l’AAC 128 kbps con iscrizione free diventa AAC 256 kbps con abbonamento.
Se non si utilizza il Player Web si viaggia con codifica Vorbis in contenitore Ogg (Ogg Vorbis) e flusso dati 160 kbps Free che diventa 320 kbps se Premium, comunque superiore all’MP3 benché sempre lossy. Ed è proprio dalla base di Spotify perfettamente fruibile anche in modalità free, anche se con presenza di spot pubblicitari, che si è partiti per l’ampia selezione musicale che segue. Mettere assieme una lista dei cinquanta ‘migliori’ album britannici semplicemente non esiste, certo un’impresa futile volendo stilare una classifica dal migliore al meno interessante. Quanto meno cinquanta resta un numero che dovrebbe offrire una importante selezione tra generi e autori, rappresentativa di ciò che la Gran Bretagna ha offerto al mondo musicale nelle passate decadi.
Si tratta di ottime produzioni discografiche per scoprire più di un artista, anche del tutto sconosciuto. Gli album sottostanti non sono necessariamente quelli con il più alto valore tecnico artistico o con ogni strumento risaltato al massimo, ma la selezione è anche legata alle capacità che ogni singola opera ha di porre l’accento sulla qualità dell’impianto Hi-Fi. Aspettatevi quindi anche ritmi difficili, cambi esagerati di dinamica e naturalmente dense composizioni pronte per essere esplorate.
Hounds Of Love by Kate Bush (1985)
(Image credit: Kate Bush – Spotify)
Pochi avrebbero da ridire in merito al fatto che l’album Hounds Of Love sia uno delle più grandi opere britanniche, quei pochi che fondamentalmente sarebbero comunque fuori strada. Non era la prima volta che Kate Bush utilizzava elettronica complessa e computer musicali come linea guida per le sue composizioni. È questo disco che va comodamente a posizionarsi nello spazio tra l’elettronico e l’umano, il solido e l’etereo. E questo per non parlare della combinazione tra musica e parole ad assistere Kate al meglio della sua espressione artistica.
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Astral Weeks by Van Morrison (1968)
(Image credit: Van Morrison – Spotify)
Ci vogliono meno di dieci secondi di Astral Weeks, il suo secondo album in studio, per ascoltare la voce di Van Morrison, ed è esattamente come dovrebbe essere. Al tempo stesso rilassato ed effusivo, la voce del cantautore nord irlandese è tra le più iconiche della musica occidentale. Nulla è lasciato al caso, nulla è andato sprecato raggiungendo un risultato di riproduzione con una certa attitudine dinamica e un soundstage abbastanza spazioso.
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Ambient 1: Music For Airports by Brian Eno (1978)
(Image credit: Brian Eno – Spotify)
Il fascino di Brian Eno per la complessità che nasce dalla semplicità è meravigliosamente riflesso nel suo Ambient 1. Per la sua seconda traccia, per esempio, Eno ha semplicemente registrato ogni “ah” profuso lasciandolo andare in loop con ritardi variabili per creare uno stratificato soundstage che s’imprime nella mente, restando una delle sue migliori composizioni ambient.
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Selected Ambient Works 85-92 by Aphex Twin (1992)
(Image credit: Aphex Twin – Spotify)
È difficile da comprendere ma Richard James nei confronti degli artisti, dai più classici a quelli più elettronici, che sembrerebbero averlo influenzato durante la creazione di Selected Ambient Works ha rivendicato la propria beata ignoranza. Indipendentemente da ciò in questo disco c’è una netta alterità o sorta di non tradizionalità che dir si voglia la quale, nonostante certi legami col passato, gli impedisce di essere del tutto un derivato in misura tale da lasciar credere la veridicità della sua affermazione.
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Black Sabbath by Black Sabbath (1970)
(Image credit: Black Sabbath – Spotify)
Ci sono certamente album metal britannici più moderni che avrebbero potuto facilmente far parte dell’elenco, ma questo particolare disco è la prova che non occorrono otto distorsori a pedale e un doppio kick-drum per creare un suono da metallo pesante. È sufficiente ascoltare il riff di apertura della traccia che da il titolo all’album, se mai occorressero delle prove. Questo è un album tanto radicato nella psichedelia quanto nell’heavy metal e sfidiamo qualsiasi ascoltatore principiante dei Black Sabbath a indovinare che quest’anno si è celebrato il suo cinquantesimo anniversario.
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Entertainment! by Gang Of Four (1979)
(Image credit: Gang Of Four – Spotify)
L’album di debutto di Gang Of Four ridefinisce il termine “angolare” quanto a riferimento del genere musicale. Le linee di chitarra di Andy Gill si snodano attraverso il fraseggio schizofrenico di Entertainment! come vetri rotti, beneficiando infinitamente del fatto che tali composizioni siano ascoltate attraverso un flusso dati ad alta risoluzione e un sistema Hi-Fi sufficientemente capace.
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Power, Corruption & Lies by New Order (1983)
(Image credit: New Order – Spotify)
Nonostante Movement fosse stato pubblicato due anni prima, Power, Corruption & Lies resta probabilmente il disco che meglio identificava i New Order come una band separata dai Joy Division. L’uso di sintetizzatori è molto più ampio rispetto alle composizioni di debutto, ma si intreccia ancora in modo intelligente con chitarre e percussioni acustiche per un suono che è al contempo densamente strutturato e piacevolmente spazioso.
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Tomorrow’s Harvest by Boards of Canada (2013)
(Image credit: Boards Of Canada – Spotify)
La miscela di composizioni dei Boards of Canada con linee di synth spesso ambient ha ispirato una schiera di sviluppatori di plug-in software che avrebbero cercato di emulare la loro firma sonora, resa immediatamente riconoscibile. Forse Tomorrow’s Harvest non è il più accessibile dei dischi, ma quanto meno offre un ascolto intrigante e coinvolgente.
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LP1 by FKA twigs (2014)
(Image credit: FKA twigs – Spotify)
Nominato per il Mercury Prize 2014, dove è stato battuto sul rush finale dal brillante Dead dei Young Fathers, LP1 è una fusione di sperimentazione elettronica e lirismo affiancato dalla quasi angelica voce di Tahliah Barnett. È stato seguito l’anno scorso da Magdalene, un disco altrettanto inventivo ma decisamente più vulnerabile quanto raffinato, che dimostra quanto ci si trovi alle prime battute nello sperimentare l’ampiezza del notevole talento della cantante britannica FKA twigs.
The Hawk Is Howling by Mogwai (2008)
(Image credit: Mogwai – Spotify)
Gran parte del materiale di The Hawk Is Howling è stato scritto per la colonna sonora di un film colombiano, sebbene non sia mai stato usato. In quanto tale si trova a metà strada tra le colonne sonore e gli album in studio che vanno a comporre il resto degli inebrianti lavori di Mogwai, concettualmente diverso ma senza mai deludere. Se non per sconosciute e specifiche ragioni chi non vorrebbe suonare un disco con brani intitolati I’m Jim Morrison, I’m Dead, Scotland’s Shame, I Love You, I’m Going To Blow Up Your School? Di un’assurda brillantezza.
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Blackstar by David Bowie (2016)
(Image credit: David Bowie – Spotify)
Ovviamente nessuna lista dei più grandi album britannici sarebbe completa senza Bowie, al solito la difficoltà resta quella di decidere quale includere. Abbiamo apprezzato questa gemma prodotta da Tony Visconti sin dalla sua uscita nel 69° compleanno di Bowie, solo due giorni prima della sua scomparsa. Si resta a bocca aperta scoprendo il modo in cui il suo genio creativo è magnificamente completato dal sassofonista jazz Donny McCaslin e dal suo quartetto. Come regalo di addio Blackstar va incluso tra i migliori.
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Psychodrama by Dave (2019)
(Image credit: Dave – Spotify)
È irritante pensare che Dave abbia ancora solo 21 anni. L’anno scorso era già molto avanti nella realizzazione dell’album di debutto – produzione dove grazie alla propria consapevole capacità oratoria non ha perso di porre l’accento attraverso commenti sociali spesso ironicamente umoristici che gli hanno aperto le porte della semi-celebrità attraverso vari singoli ed EP – Psychodrama però resta a un altro livello. In effetti resta più in generale su un altro livello di gran parte di ciò che è venuto prima. Il gioco di parole è tale che i riferimenti saranno ancora da scoprire completamente molto tempo dopo che avranno perso il significato culturale, benché resti in parte mitigato all’interno di una importante raccolta di canzoni che esplora cosa significhi essere giovani, neri e in sintonia con la fragilità della salute mentale all’intero di uno spaccato della Gran Bretagna.
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Nobody Wants To Be Here And Nobody Wants To Leave by The Twilight Sad (2014)
(Image credit: The Twilight Sad – Spotify)
Se si fosse alla ricerca di composizioni per chitarra degne di uno scavo archeologico pochi ne dispongono su vasta scala quanto i The Twilight Sad abbiano realizzato negli ultimi dieci anni o giù di li. Nobody Wants To Be Here And Nobody Wants To Leave è il quarto album in studio della band – che ha preceduto It Won/t Be Like This All the Time che è stato pubblicato l’anno scorso – che quanto a creazioni sonore è davvero il più completo, con alcune melodie che meriterebbero un pubblico più vasto. Da un punto di vista Hi-Fi, le sue ritmiche marginalmente ridotte aprono a una ulteriore analisi di quegli arrangiamenti sporchi e pieni di riverbero.
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Pink Moon by Nick Drake (1972)
(Image credit: Nick Drake – Spotify)
Se per questo album dal suono più pulito e perfezionato l’idea fosse quella di avvicinare l’artista all’ascoltatore allora possono esserci alcuni esempi migliori, capaci di restituire la giusta importanza di quanto non possa fare un’intima suite come Pink Moon di Nick Drake. Fin quando si percepiscono le dita che corrono tra le corde e vivono nel corpo della chitarra di Drake, allora tale intimità aiuta a favorire un rapporto ancora più tenero tra musica e ascoltatore.
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Unknown Pleasures by Joy Division (1979)
(Image credit: Joy Division – Spotify)
Qui sta un altro album che sembra assurdo sia stato scritto il secolo scorso, figuriamoci più di quarantanni anni fa. Piaceri sconosciuti hanno plasmato la musica per chitarra britannica in modo tale che è difficile immaginare dove saremmo se non ci fosse stata, con una tale bellezza che si trova negli spazi tra le linee di chitarra spesso inquietanti di Bernard Sumner e l’emozionante voce di Ian Curtis. Quest’anno segna quattro decenni da quando Curtis si è tragicamente tolto la vita, e non sembra esserci un tributo più appropriato se non quello di celebrarlo con la sua opera più seminale.
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The King Of Limbs by Radiohead (2011)
(Image credit: Radiohead – Spotify)
Definire questo album il meno accessibile dei Radiohead probabilmente dice molto, ma è anche probabilmente il più gratificante da ascoltare attraverso il giusto impianto Hi-Fi. Sono pochi i fraseggi che invoglieranno a fischiettare mentre si consuma la colazione – anche se questo non vuol dire che The King Of Limbs sia privo di melodia – molti degli arrangiamenti e degli orpelli a seguire possono apparire arbitrari e casuali quando ascoltati su un Hi-Fi al di sotto della media. Questa è una lezione sull’organizzazione e il lavoro d’intreccio musicale; quando l’impianto è di qualità tutto quanto è stato deciso all’interno di questo disco inizia ad avere un senso.
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One World by John Martyn (1977)
(Image credit: John Martyn – Spotify)
Il produttore Chris Blackwell ha sfruttato quanto in suo possesso per ottenere il suono magnificamente aperto di One World, posizionando un sistema di microfoni distribuiti per l’idilliaca fattoria nel Berkshire dove è stato registrato l’album. Due microfoni furono installati sul lato opposto della casa per catturare i suoni riflessi, altri due posizionati per cogliere lo sciabordio dell’acqua che ne lambiva la riva senza mancare di suscitare perplessità negli uccelli che galleggiavano nei paraggi. “Tra le 3:00 e le 6:00 del mattino era il momento più difficile per i microfoni, ma queste ore tranquille prima dell’alba hanno contribuito a una magica atmosfera”, ha dichiarato l’ingegnere Phil Brown.
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New Hymn To Freedom by Szun Waves (2018)
(Image credit: Szun Waves – Spotify)
La fiorente e moderna scena jazz londinese non è più opportunamente messa in bella mostra di quanto non faccia il secondo album non censurato e ricco d’improvvisazione di Szun Waves intitolato New Hymn To Freedom. Il trio del sassofonista Jack Wyllie, il produttore di musica elettronica e musicista sperimentatore di sinth Luke Abbot e il batterista Laurence Pike hanno creato un paesaggio psichedelico che è al tempo stesso densamente sonoro e gloriosamente fluido. Sebbene si tratti di un suono così distintamente personale necessita lo stesso i diffusori dell’impianto come qualsiasi grande registrazione jazz: un’esperta tempistica per navigare gli oscuri schemi ritmici, dare spazio a ogni strumento per articolarne il fraseggio e versatilità dinamica catturando sfumature e imprevedibilità delle improvvisazioni.
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Singularity by Jon Hopkins (2018)
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Linee sfocate tra ambient techno e acid house, Singularity di Jon Hopkins è un capolavoro con una ritmica frastagliata e bassi felici e beati. Apparentemente allo stesso tempo minimalista, un ascolto più profondo ne rivela le componenti ausiliarie dei synth, senza i quali il disco perderebbe della giusta euforia. Si tratta di un album che meriterebbe una coppia di altoparlanti dalla giusta gamma dinamica per accentuare quelle note principali che guidano l’eterogenea ritmica di Hopkins.
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There Is Love In You by Four Tet (2010)
(Image credit: Four Tet – Spotify)
There Is Love In You ha indubbiamente segnato un punto culminante nella carriera da solista di Kieran Hebden come Four Tet. I pattern ritmici un po’ idiosincratici del disco sono spesso ingannevolmente semplici, dove solo alcuni motivi sono sovrapposti, spesso legati da una batteria acustica piuttosto che una cacofonia di percussioni. La chiave sta nel modo in cui tutto ciò finisce per interagire in modo dinamico e in termini di intensità, per cui occorre un impianto teso e sottilmente espressivo per rivelarne la piena bellezza.
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Love Deluxe by Sade (1992)
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La vellutata voce di Sade Adu non poteva venire meglio risaltata di quanto non facciano le nove tracce che compongono l’album Love Deluxe. La cantante nigeriano-britannica è spesso in contrasto sonoro con gli strumenti che la accompagnano, le chitarre distorte e le forti percussioni trip-hop che a tratti vanno al di là dell’anima soul dell’album, ma la giustapposizione serve solo a evidenziarne le splendide tonalità. Come se l’album fosse stato creato per soddisfare unicamente la gamma media dell’impianto stereo.
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Heaven Or Las Vegas by Cocteau Twins (1990)
(Image credit: Cocteau Twins – Spotify)
Sottogenere musicale dell’alternative rock lo Shoegaze è diventato genere a sua volta con così tanti imitatori da essere stato castigato da più parti della stampa musicale specializzata e spesso usato come insulto legato a composizioni più o meno debitrici di altro, ma incapaci di rendere in egual misura. Una piccola ripresa negli ultimi anni ha dato le giuste ragioni, se necessario, per rivisitare le luccicanti chitarre e le fluide linee vocali di Heaven Or Las Vegas dei Cocteau Twins. I testi spesso indiscernibili potrebbero significare che ben presto si finisce per cantare tutte le parole sbagliate, ma qui c’è così tanto da comprendere che almeno in questo caso paga ascoltare in silenzio.
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Peanut Butter Blues & Melancholy Jam by Ghostpoet (2011)
(Image credit: Ghostpoet – Spotify)
Il titolo dell’album di debutto di Obaro Ejimiwe come Ghostpoet smentisce in qualche modo la sua oscurità, da ascoltare dopo mezzanotte con le luci della città che si riflettono attraverso la finestra. Un percorso cavalcando un’onda di synth sudici e ondulati in uno spaccato di ritmi, con il languido lavoro di Ejimiwe che si libra in cielo quanto una nuvola di fumo industriale. Nominato per il Mercury Prize 2011, come il suo terzo album Shedding Skin quattro anni dopo, Peanut Butter Blues & Melancholy Jam fu tutt’altro che ignorato alla sua uscita e sembra solo migliorare con l’età.
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In Our Heads by Hot Chip (2012)
(Image credit: Hot Chip – Spotify)
C’è tempo più che sufficiente in sala d’ascolto per accarezzarsi il mento e riflettere pensierosi su medi, acuti e l’immagine stereo, ma se ciò fosse l’unico divertimento allora sarebbe completamente perso il significato stesso di questa musica. Dopo che One Life Stand del 2010 ha visto gli Hot Chip maturare, aggiungendo più dimensioni ai loro brani pop dance, In Our Heads si è concentrato quasi da solo sul giocoso intrattenimento musicale. Il disco dispone di un certo afflato, con la possibilità di ponderarne bene la struttura ma soprattutto mette alla prova il timing e la forza dell’impianto, nonché della potenza raggiungibile.
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Cocoa Sugar by Young Fathers (2018)
(Image credit: Young Fathers – Spotify)
Gli Young Fathers hanno smussato un po’ gli angoli col loro terzo album in studio, ma il risultato lascia non di meno a bocca aperta. Cocoa Sugar potrebbe forse essere descritto tanto un disco elettronico sperimentale quanto un semplice album rap o hip-hop. Guidato da ritmi spesso instabili e servito con un generoso aiuto in gamma bassa, tanto che agli altoparlanti sarà richiesto uno sforzo aggiuntivo per gestire al meglio la struttura delle composizioni.
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In The Court Of The Crimson King by King Crimson (1969)
(Image credit: King Crimson – Spotify)
Combinando blues, jazz e influenze classiche con grandi orchestrazioni per ritmi e tempi che cambiano regolarmente, il debutto di King Crimson è uno dei primi e senza dubbio uno degli album di rock progressivo più influenti mai registrati. Innumerevoli successive produzioni nel genere non al medesimo livello hanno offerto poco più che un buon allenamento per l’impianto e, sebbene In The Court Of The Crimson King risulti ancor più funzionale a tale scopo, rimane un disco squisitamente ben realizzato, indipendentemente dalla padronanza strumentale.
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The Scream by Siouxsie and the Banshees (1978)
(Image credit: Siouxsie and the Banshees – Spotify)
Registrato in una settimana e mixato in tre, il concept di The Scream ha fatto in qualche modo da eco alla frenetica natura dei favolosi spettacoli dal vivo di Siouxsie and the Banshees che lo hanno preceduto. Quell’atmosfera febbrile è altrettanto sfruttata nella medesima registrazione, con la voce maniacale di Siouxsie Sioux incoraggiata dalle distorte e discordanti linee di chitarra e dal tamburo tribale che potrebbero apparire monodimensionali, se non fosse per la varietà dell’offerta da parte di ciascun strumento.
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Orchestra Of Wolves by Gallows (2006)
(Image credit: Gallows – Spotify)
Il debutto dei Gallows fu un altro album britannico che tentava di catturare su disco la frenesia dello spettacolo dal vivo, con risultati terrificanti. È un disco hardcore punk che lascia la sensazione di non poter essere realizzato in nessun’altra parte del mondo, con le grida spesso incomprensibili di Frank Carter accompagnate dalle inflessioni che conducono fino a casa sua, a Watford. Raramente una band suona così compatta a tali vertiginose velocità.
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Rid Of Me by PJ Harvey (1993)
(Image credit: PJ Harvey – Spotify)
Il seguito di Dry, debutto acclamato dalla critica, scopre le tormentate composizioni di Polly Jean Harvey magnificamente fuse con l’abrasiva produzione di Steve Albini, creando un set di 14 graffianti brani che si protende senza alcun preavviso tra rumore e silenzio. Un contrasto in evidenza che anticipa una prima occhiata al lavoro meravigliosamente vario di Harvey, che l’ha giustamente investita del ruolo di icona della musica britannica.
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Big Conspiracy by J Hus (2020)
(Image credit: J Hus – Spotify)
Dalla pigra voce di J Hus al modo in cui brilla tra ritmi e generi, tutto in Big Conspiracy suona senza forzature. Netto passo in avanti rispetto all’acclamato debutto Common Sense, si tratta di quarantacinque minuti di transizioni artigianali, un po’ pacate ma sempre precise che non solo mettono in mostra la padronanza di diversi stili, mantenendo un proprio gusto nella giusta ritmica.
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The Beatles by The Beatles (1968)
(Image credit: The Beatles – Spotify)
Se c’è una band che oggi andrebbe ascoltata quelli sono i Beatles. Il quartetto liverpooliano all’epoca fu vergognosamente trascurato, ma dopo che un certo numero di bootleg emerse nel Merseyside durante una fiera di auto usate, finalmente ricevettero il meritato riconoscimento. Nessuno sa con certezza se questo disco, chiamato semplicemente The Beatles, originariamente beneficiasse di una grafica più personalizzata mentre oggi è noto tra i fan come il White Album a causa del fatto che fu trovato con una copertina di tale colore. Folklore a parte resta francamente uno dei più grandi album pop mai realizzati.
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The Dark Side Of The Moon by Pink Floyd (1973)
(Image credit: Pink Floyd – Spotify)
In varia misura The Dark Side Of The Moon è simile alla letteratura classica. Per prima cosa molte meno persone lo hanno effettivamente ascoltato e apprezzato, certo meno di quante magliette e poster siano stati venduti, al punto da quasi superare le copie stesse dell’album – ma è anche senza dubbio uno dei dischi britannici più influenti degli ultimi sessant’anni. C’è poco da dire al riguardo che non sia già stato scritto e poi plagiato centinaia di volte, così com’era praticamente impossibile che rimanesse fuori da questa lista.
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Original Pirate Material by The Streets (2002)
(Image credit: The Streets – Spotify)
“Faccio scienza sul mio laptop, mescolo gli stili”, afferma Mike Skinner nel singolo principale di questo album, Has It Come To This? In effetti pochi prima o dopo l’uscita di Original Pirate Material hanno saputo sfruttare il potenziale di un computer e di una workstation audio digitale con tale padronanza. Registrato principalmente all’interno dei confini della sua casa di Brixton nell’arco di circa un anno, l’album di debutto di Skinner intitolato The Streets è un collage inventivo di ritmi e linee musicali pigramente dedicate alla vita della classe operaia britannica, che dimostra quanto valga la pena registrare musica ora alla portata di chiunque.
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Bicep by Bicep (2017)
(Image credit: Bicep – Spotify)
Il duo di Belfast Andrew Ferguson e Matthew McBriar continua la tradizione britannica nel creare euforiche tracce elettroniche lunghe quattro o cinque minuti che si sentono ugualmente a loro agio sulla pista da ballo, alla radio in prima serata o in un campo soleggiato con una pinta di sidro in mano. Considerando Bicep come la genesi l’ascesa della coppia è stata rapida, ma in realtà l’album è il culmine di quasi un decennio di lavoro che è iniziato con il blog Feel My Bicep, facendo luce su dimenticate tracce di un disco house-italo-techno cresciuto con la nascita di un’etichetta dallo stesso nome – e non sembra finire qui.
Sexwitch by Sexwitch (2015)
(Image credit: Sexwitch – Spotify)
Se non si è britannici si potrebbe arrivare a negare il posto in questa lista di Sexwitch, oppure ci può ritrovare a celebrarlo come brillante esempio del melting pot di influenze globali che ha continuato a rendere il Regno Unito un così fertile ambiente musicale. Una raccolta di sei canzoni psichedeliche e folk degli anni ’70 provenienti da Iran, Marocco, Tailandia e Stati Uniti questo album di cover – registrato da Toy e Natasha Khan (Bat For Lashes) – è allo stesso tempo un giramondo musicale quanto sembri provenire da un altro pianeta.
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xx by The xx (2009)
(Image credit: The xx – Spotify)
All’inizio dell’ultimo decennio non c’era quasi nulla dei drammi visti in televisione che non fosse rappresentato dalle sparse e riverberanti linee di chitarra di The xx, così come nella voce mozzafiato. L’album omonimo della band ancora oggi accompagnerebbe molto bene la programmazione televisiva se all’epoca non se ne fosse così tanto abusato. Grazie agli arrangiamenti così meravigliosamente sottomessi quanto suggestivi che allo stesso tempo si percepiscono come intimi e ancora aperti, tra analisi della composizione e beato rilassamento e riflessione.
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90 by 808 State (1989)
(Image credit: 808 State – Spotify)
Sarà anche sdolcinato identificare qualsiasi genere col relativo album definitivo, ma se proprio fosse necessario allora 90 sarebbe sicuramente quello dedicato all’acid house. Certamente è un album cui la musica elettronica britannica ha un debito enorme, che aiutò a spianare la strada ai musicisti locali per reinterpretare piuttosto che scimmiottare le grandi forme d’arte americane tra house e techno. Qui sono presenti in parti eguali elementi d’atmosfera e aggressivi, mescolando battiti e melodie infettive a un ritmo che impedisce di fare i sedentari.
Obey The Time by The Durutti Column (1990)
(Image credit: The Durutti Column – Spotify)
A essere evidentemente contaminato da 808 State e i loro contemporanei acid house fu Vini Reilly, che scrisse e registrò quasi da solo questo album di Durutti Column. Presentando la sua chitarra alla scena della musica elettronica Reilly ha realizzato una miracolosa impresa di crossover che evita il genere senza disonorare nessuno degli stili da cui ha preso ispirazione. Forse non si assocerebbe istintivamente questo e l’album 90 qui sopra se li si ascoltasse entrambi per la prima volta – il lavoro di Reilly è perlopiù una questione ambient – ma vanno comunque a braccetto grazie ai loro iconici motivi.
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Spirit Of Eden by Talk Talk (1998)
(Image credit: Talk Talk)
Un po’ più isolato rispetto al resto dei lavori della band, Spirit Of Eden è più una meditazione che una raccolta di brani dei Talk Talk. Sembra destinato a venire ascoltato nella sua completezza, creando una immersiva atmosfera radicata nella trama musicale tanto quanto la melodia o il ritmo guida. Flirta con il jazz e l’avant-garde senza imbattersi in banalità o artificiosità, offrendo un maturo soundstage per la giusta esplorazione sonora.
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Violator by Depeche Mode (1990)
(Image credit: Depeche Mode)
Con Violator, loro settimo album in studio, i Depeche Mode hanno realizzato il perfetto album synth-pop, e il mondo evidentemente si è trovato d’accordo. Si tratta di una collection di nove brani, ognuno dei quali avrebbe potuto essere pubblicato come singolo (quasi la metà lo sono stati), restando sorprendentemente fluido nonostante l’apparente rigidità dei ritmi definiti. Rimane un ampio spazio nel missaggio degli elementi sonori che non minaccia mai di restare intasato nonostante la vasta presenza di linee musicali ausiliarie, tutte da scoprire.
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Steve McQueen by Prefab Sprout (1985)
(Image credit: Prefab Sprout)
Venduto negli Stati Uniti con diverso titolo Two Wheels Good a causa della minaccia di azioni legali da parte dei discendenti di Steve McQueen, il secondo album in studio di Prefab Sprout è un esempio innegabilmente intelligente e sofisticato del grande songwriting indipendente britannico. Supportato da un gruppo di chitarre pulite e riverberanti e portato in alto dalla scintillante produzione di Thomas Dolby, la fluida voce di Paddy McAloon guida attraverso undici tracce che giungono come una fresca brezza, implorandoci di venire ascoltate più volte per cogliere ogni dettaglio.
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Disintegration by The Cure (1989)
(Image credit: The Cure)
Il fatto che canzoni come Lullaby, Lovesong e Pictures Of You possano essere considerate i singoli di un album residente nella top ten dona gloria alla musica britannica. Non che non siano melodiosi – l’allontanamento di Robert Smith dai suoni pop che donarono tutto l’appeal mainstream dei Cure non ha ridotto la magistrale scrittura dei pezzi – ma le trame dense e ponderate di questo album insieme alla psichedelica piega gotica restano lontane dalla tipica produzione confezionata per scalare le classifiche.
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Dummy by Portishead (1994)
(Image credit: Portishead)
Coinvolgenti e minacciosi ritmi in loop in contrasto con la voce meravigliosamente triste di Beth Gibbons, alcuni dei migliori lavori accompagnati dallo strumento Theremin, al di là del tema principale della serie L’ispettore Barnaby (in originale Midsomer Murders). Il debutto di Portishead è stato estremamente influente nell’ascesa del trip hop degli anni ’90 e tuttavia non sembra essere invecchiato. Ciò è in parte dovuto al fatto che Dummy era già destinato a sembrare un po ‘”vintage” già alla nascita, ma ciò significherebbe poco se non fosse per l’inventiva dei motivi e della chitarra in particolare.
Sleep by Max Richter (2015)
(Image credit: Max Richter)
Nato in Germania ma cresciuto a Bedford, Max Richter è tra i principali fautori della musica classica moderna britannica e Sleep è probabilmente il suo capolavoro. Composto per pianoforte, organo, archi, voce soprano e vari componenti elettronici questo progetto da 8,5 ore, composto da trentuno composizioni è così chiamato per la sua intenzione di coprire il sonno di un’intera notte. L’unico problema è la facilità con cui ci si può perdere nei beati arrangiamenti fluttuando tra le note, ed è quindi più d’ogni cosa vietato appisolarsi.
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Hats by The Blue Nile (1989)
(Image credit: The Blue Nile)
In netto contrasto con la rapida inversione di tendenza di molti degli album in questa lista, il periodo di gestazione di The Blue Nile’s Hats è stato di cinque anni. Il tempo che intercorre tra il debutto A Walk Across The Rooftops e questo è stato in effetti il divario più breve tra i quattro dischi della band. Sicuramente abbastanza lungo da creare un mistico album pop quasi perfetto, dove spesso è lo spazio tra le righe e il rifiuto di accontentarsi di pedestri melodie o strumentazioni a invitare a un più profondo ascolto.
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Kala by M.I.A. (2007)
(Image credit: M.I.A.)
Mentre la musica britannica è responsabile della creazione e della maestria in molti stili, è ugualmente capace di celebrare quegli artisti che sembrano non rientrare affatto in una particolare categoria. Kala ha reso Maya Arulpragasam il suo primo grande successo con il singolo Paper Planes, ma l’album nel suo insieme è più agitato ed eccentrico di quanto ci si aspetterebbe venga concesso in una chart di successo. Se non altro la capacità di M.I.A. di mettere insieme ritmi taglienti e scarti sonori è qualcosa da scoprire.
Broken English by Marianne Faithful (1979)
(Image credit: Marianne Faithful)
La storia che circonda Broken English è ben raccontata – in quel di Londra Marianne Faithful si era accovacciata in un edificio bombardato e senza tetto, dipendente da droghe e apparentemente senza futuro creativo – ma sarebbe stato criminale ridurre questo album al semplice folklore. Sebbene sia intimo e vulnerabile, in gran parte della sua materia c’è un ritmo e una sfacciataggine che dimostrano che la Faithful non aveva rinunciato a nessuna delle sue singolari personalità musicali, in un ritorno in qualche modo stranamente trionfante.
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The Stone Roses by The Stone Roses (1989)
(Image credit: The Stone Roses)
Non mancarono gli ammiratori di The Stone Roses alla sua uscita grazie all’abilità nel destreggiarsi tra musica rock e dance iniettandole con invidiabile spavalderia, ma fu probabilmente qualche anno prima che l’album ricevesse il dovuto apprezzamento. Accendendo i riflettori sulle copiose chitarre britanniche che governavano gli anni ’90 questo album ha un duraturo impatto che lo rende comunque innovativo rispetto a molti tra quelli che ha ispirato.
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Led Zeppelin II by Led Zeppelin (1975)
(Image credit: Led Zeppelin)
Che Led Zeppelin II sia il più grande album hard rock di tutti i tempi non spetta a noi dirlo, ma lo è sicuramente. Si apre con Whole Lotta Love, per cominciare, continuando a martellare con alcuni dei riff più potenti mai scritti. Robert Plant non è sempre stato lusinghiero rispetto al modo in cui questo album è stato registrato e mixato per varie location, ma resta ben mascherato dalla versatilità di scrittura per quella che resta la collezione di composizioni più completa della band.
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London Calling by The Clash
(Image credit: The Clash)
Accanto a Never Mind the Bollocks dei Sex Pistols questo London Calling rappresenta uno degli album punk britannici più iconici, ma in realtà è molto più vario di così. Con un doppio album e diciotto brani da suonare, Joe Strummer e Mick Jones flirtano anche con le radici del genere, Ska, R&B e Hard Rock portando il suono dei Clash verso nuove avventure, legando ciascun brano a un proprio indomabile carattere.
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Per ulteriori informazioni: link al sito Spotify.
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