Migliorare la creatività degli scatti anche in condizioni di bassa luminosità è possibile grazie al pixel binning. Prosegue il nostro approfondimento
Dopo una prima introduzione al pixel binning (che trovate a questo link), proseguiamo ad approfondire questa giovane tecnologia dall’elevato potenziale. Tutto è legato all’hardware in dotazione, ciò significa che deve venire considerata l’intera catena digitale e quindi la qualità dell’obiettivo, il software e il processore che lo elabora e il sensore stesso con le dimensioni di ciascun pixel. A seconda del sensore e della quantità di informazioni recepibili va a comporsi l’immagine, motivo alla base delle differenze sostanziali in termini di resa e valore economico che hanno vere fotocamere digitali dal costo anche di migliaia di euro rispetto a uno smartphone, che se pur alto di gamma non dispone dei giusti argomenti per competere.
Il collo di bottiglia è quindi la dimensione del fotosito e di conseguenza quella del pixel, che in termini di micrometri (il micrometro è un millesimo di millimetro) può variare anche di molto. La dimensione del pixel sul Galaxy S20 Ultra di Samsung è pari a 0,8 micron (7,2 micrometri più piccolo di un globulo rosso) mentre ci sono macchine fotografiche digitali dove la dimensione del pixel può essere anche quattro volte superiore, con la possibilità di acquisire molti più fotoni sia a piena luce che in situazioni disagiate e quindi maggiore volume di informazioni. Possibile quindi un inferiore livello di rumore e più in generale meno difficoltà a ottenere uno scatto di alta qualità di svariati ordini di grandezza.
Tra le vie percorse dalla ricerca per rendere lo scatto migliore, da parte di un apparato che ricordiamo essere concepito non solo per fare fotografie o girare video ma gestire migliaia di applicazioni nonché telefonare, c’è quella della combinazione di più scatti che vengono messi assieme (al fine di compensare abbassando il rumore e migliorare la gamma dinamica) e certo anche l’aumento delle dimensioni del sensore.
Il pixel binning non è la moda del momento anche se la mossa marketing ci sta tutta. Il fatto è che rispetto ai device di ultima generazione si viaggia verso fotositi di grandezze sempre più piccole, pixel nel range dei micrometri con ordini di grandezza come abbiamo visto anche al di sotto del singolo micron. Scelta che farà anche figo quando si lancia un prodotto per attirare l’attenzione, dato che il pixel binning mantiene alta la resa notturna anche se a scapito della risoluzione finale. Tecnologia che nel bene e nel male è andata a influenzare la progettazione del sensore stesso, con variazioni sul tema dello Schema Bayer.
Si può sempre applicare il pixel binning anche quando la disposizione dei pixel dello stesso colore non viaggia a coppie, terne o quaterne, benché si renda necessaria una elaborazione supplementare andando a inficiare almeno in parte l’immagine che ne scaturisce. La soluzione migliore è quella di agire sull’array per il filtraggio del colore, determinando come vengono raccolte le informazioni dell’RGB. È una scelta che spetta al costruttore e agli ingegneri che possono decidere di muovere a coppie 2 x 2 come ha fatto Xiaomi per i suoi Mi 10 ed Mi 10 Pro, a terne 3 x 3 come nel caso del Samsung Galaxy S20 Ultra oppure sacrificando maggiore area contigua del sensore come ha fatto Huawei per il suo P40 Pro dove addirittura si viaggia a blocchi di 4 x 4 pixel.
Va da se che la risoluzione col binning dei pixel sia inversamente proporzionale alla grandezza dell’area scelta per il “pixel virtuale” e che il Huawei, che elabora blocchi di pixel virtuali da 4,5 micrometri, sia capace di un risultato superiore a Xiaomi e Samsung. Raggruppare i pixel in elementi virtuali più grandi ha una resa efficace anche quando la catena hardware e software di elaborazione delle immagini è studiata in caso di normale disposizione dei pixel relativi al Schema Bayer. Quando però le immagini sono ad alta risoluzione occorre intervenire sull’elaborazione delle stesse con un rimodellamento, calcoli volti a produrre uno Schema Bayer con informazioni più fini rispetto ai più ampi gruppi di colori presenti sul sensore.
La situazione va a complicarsi nel caso in cui la necessità fosse quella di tirare fuori dalla memoria dello smartphone scatti di tipo raw, ovvero quando si vuole disporre del massimo volume di informazioni possibile dallo scatto per poi rielaborarlo in una fase successiva, senza ingerenze da parte dell’apparato che l’ha realizzato. Per esempio LG e Samsung non rendono disponibili tali informazioni, non almeno alla massima risoluzione del sensore, se poi ci si accontentasse di passare per il pixel binning ci si scontrerebbe con l’incompatibilità di certi software di post-produzione. Non tutti i programmi accettano immagini che non derivino da uno Schema Bayer e certo non quando la scelta a monte è stata quella del raggruppamento a coppie, terne o quaterne di pixel del medesimo colore primario.
A parità di dimensioni quelle reali hanno una resa comunque mezzo gradino sopra rispetto al pixel binning, con ulteriore nitidezza oltre al fatto che il sensore avrebbe un costo inferiore. Altro rovescio della medaglia il fatto che il binning richieda una maggiore elaborazione delle informazioni incidendo quindi sulla longevità energetica. Tutto sta nella qualità del software di calcolo che tirando le somme non dovrebbe inficiare l’immagine finale, se non in basse percentuali che non dovrebbero essere facilmente percettibili. Il binning dei pixel è un terreno solo in parte esplorato, ed è più di una sensazione che ci siano potenzialità inespresse che possano concorrere a migliorare lo scatto ottimizzando ancor di più la gestione delle informazioni.
Nel caso di aree da 4 pixel si può diversificare assegnando un pixel all’informazione meno luminosa, uno alla parte meno scura e i restanti due alla normale esposizione. La mediazione dei dati potrebbe creare una risultante più ampia e fedele. Certo aumentare ancora la risoluzione dei sensori avrebbe ancor meno peso in fase di abbattimento della stessa col binning operativo e in ultima analisi il beneficio della flessibilità quanto a valorizzazione delle aree 2 x 2, 3 x 3 oppure 4 x 4 potrebbe andare anche nei confronti di una migliore messa a fuoco.
Tra pixel reali e pixel virtuali il binning resta una tecnologia su cui c’è ancora molto da sperimentare, per offrire scatti di qualità con sempre meno limitazioni rispetto al passato trovandosi in condizioni di bassa luminosità. Ciò non significa affatto che i risultati ottenibili da smartphone alto di gamma siano comparabili a quelli di fotocamere digitali che di ‘lavoro’ fanno solo quello e arrivano a costare anche diverse migliaia di euro. Al di là di strilli marketing e campagne commerciali due sono gli elementi cardine della questione e certo di non poco conto: il sensore che varia a seconda di brand e modello e quindi la capacità di raccogliere fotoni, il software dedicato alla elaborazione che può incidere in misura non di meno importante.
Per ulteriori informazioni sul pixel binning: link al sito Photometrics.com.
Link alla prima parte dello speciale sul pixel binning.
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