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Mivar – Anche ai miracoli italiani occorre aiuto

Patron di Mivar, la morte di Carlo Vichi è anche occasione per riflettere sullo stato di crisi dell’industria del Made in Italy

Mivar è stato uno dei simboli dell’eccellenza nell’industria italiana, capace di mettersi davanti a colossi come Sony e Philips all’interno del mercato dei televisori. La recente scomparsa di Carlo Vichi lo scorso 20 settembre merita un approfondimento oltre il semplice ricordo dell’imprenditore toscano. Lui, che la Mivar (MIlano Vichi Apparecchi Radio) la fondò nel 1945 e nel trentennio d’oro tra gli anni ’60 e ’80 arrivò a produrre qualcosa come cinquemila televisori al giorno.

Agli inizi la VAR (così si chiamava) si occupa di valvole e radio, passando poi ai televisori diventando leader di mercato. I suoi mille operai erano la “famiglia” di cui il patron di Mivar amava circondarsi, con un ufficio proprio in mezzo alla sua gente. La direzione avrà anche avuto dei sottoposti, ma al timone del comando c’è sempre stato Carlo Vichi, che alla bella vita e all’agio preferiva il lavoro e reinvestire i profitti per migliorare la qualità del prodotto e con esso la vita dei dipendenti. Una lunga storia lavorativa fatta di grandi successi, in anni in cui l’economia girava diversamente e nel bene e nel male comunque favoriva maggiormente la crescita d’impresa.

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La lettura dal basso palesa il chiaro rapporto direzione-maestranze totalmente diverso da qualsiasi schema preordinato e preconcetto. Un inusitato livello dittatoriale da parte di Vichi, “pugno duro” che al tempo stesso aveva instaurato e manteneva un notevole rapporto di identificazione con chi lavorava per lui. Ciò ha evidentemente consentito un diverso dialogo e grado di comprensione di ciò che ogni giorno accadeva in fabbrica, e scusate se è poco. Al giorno d’oggi quale dipendente potrebbe vantarsi di un simile canale diretto di comunicazione, se non attraverso un consolidato e straniante livello di gerarchie, sindacati inclusi?


Quel che Vichi non poteva produrre da solo lo acquisiva, il mitico Mivar 14” pollici era un must negli anni ’80, indistruttibile, semplice da usare e di qualità tecnica pur mantenendosi estremamente concorrenziale. Il tubo catodico dei suoi televisori lo acquistava all’esterno, da quelle stesse aziende che poi però non riuscivano a essere altrettanto competitive sul mercato. Giocando il più possibile in casa riusciva evidentemente in un maggiore e più preciso controllo dei costi, e il suo marchio ha dilagato per il Belpaese ben oltre la fine del cosiddetto “boom economico” del secondo dopoguerra, tra ottimismo, espansione industriale e dei consumi.

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La lungimiranza di Vichi non gli ha però consentito di andare oltre, di realizzare per tempo la rivoluzione del cristallo liquido e l’evoluzione verso gli schermi piatti. Quella stessa cocciutaggine che lo spinse ad andare avanti convinto che il CRT fosse ancora la scelta migliore. Certo gli esordienti pannelli LCD a bassa risoluzione e qualità costavano cifre spropositate e almeno all’inizio non devono averlo impensierito più di tanto. Chissà cosa sarebbe accaduto se il patron di Mivar si fosse trovato a decidere su quale impresa investire in questi anni invece che nel 1945, probabilmente avrebbe puntato ad altre realtà industriali, difficile immaginarlo in competizione con i costruttori asiatici di televisori. Forse sarebbe comunque riuscito in una concorrenza attraverso una visione alternativa degli attuali modelli di business di settore, non lo sapremo mai.

Peraltro la ripartenza dell’economia italiana tanto decantata da parte dei media, scaturita dopo il periodo più drammatico della pandemia non sembra altro che strutturale, con il Paese bloccato in un deficit-pantano in cui versa da decenni. Guardando ancora più indietro nel tempo abbiamo assistito alla svendita all’incanto di tanti preziosi marchi simbolo dell’industria locale, complice debolezza e atteggiamento autolesionista di governi incapaci di proteggere il nostro patrimonio industriale.

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Le imprese italiane sono pronte a generare ulteriore indotto lavorativo, ma meritano più considerazione e aiuti da parte dello Stato, ora più che mai andando nel concreto. Facendo seguito all’affermazione di Draghi “Questo non è il momento di prendere, ma di dare”, ci sentiamo di coniugarla diversamente in chiave industriale, aggiungendo verbi come “proteggere” e “aiutare”.

Occorre maggiore sensibilità in questo senso, iniziative a difesa che evitino declassamento e impoverimento delle vere produzioni italiane, favorendo crescita e sviluppo locale. Forse così si arriverebbe ad arginare la perdita di posti di lavoro più di quanto non sia accaduto anche nel recente passato, invertendo la tendenza di un costante saldo in negativo (non solo) della bilancia commerciale.

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