Dallo scorso 2 marzo è disponibile l’M11 5G di Xiaomi, un gioiello tecnologico. Nonostante le frasi di lancio d’effetto, il cinema sta altrove
Vorremmo prendere spunto da uno dei svariati comunicati stampa, che ci arrivano a cadenza quotidiana, onde proporre un’interessante riflessione sul tema della “visione cinematografica”. E su cosa con questo termine si voglia – effettivamente – intendere ai giorni nostri. Nella fattispecie, ci riferiamo al notevole Mi 5G – smartphone di ultimissima generazione prodotto dalla cinese Xiaomi – posto in commercio dallo scorso 2 marzo. All’interno dell’usuale comunicato di presentazione alla stampa, il quale descrive le varie features di questo gioiello tecnologico, ha attirato la nostra attenzione un titolo che recita testualmente “…porta la magia del cinema mobile in Italia”.
Il prodotto in questione risulta uno dei migliori e più avanzati smartphone presenti al momento sul mercato, ivi incluse le sue specifiche funzionalità di telefono, di integrazione del mondo digitale (Android) financo di connettività (il “famigerato” 5G). Pur tuttavia, con i suoi 6.81 pollici di schermo in risoluzione 3200×1440, di certo non si può definire “uno schermo cinematografico”. Il che porta la discussione al suo punto centrale, vale a dire l’abuso oramai quotidiano ed a 360 gradi del termine “cinema”. Espressione oramai declinata a sproposito in ogni dove ed in tutte le salse.
Per definizione stessa, “cinema” identifica una modalità di visione collettiva, su grande schermo, all’interno di strutture adeguatamente progettate (e trattate) per offrire una resa – audio e video – di impatto elevato. Tutti aspetti che – in modo chiaramente antitetico – uno smartphone da 17 cm equipaggiato di speaker integrati – non può nè potrà mai offrire. E’ anche vero come nel mondo odierno, caratterizzato oramai dalla frenesia più completa e da modalità di fruizione “usa e getta”, sia considerato il “non plus ultra” già solo “godersi” un film “a pezzi” mentre si viaggia su di un tram affollato. Diviene quindi ancora più evidente come, in modalità similari, non si possa nemmeno lontanamente tirare in ballo il concetto di “cinema”.
La moda di chiamare in causa a sproposito la settima arte ha comunque origini antiche, avendo fatto – sommessamente – la sua comparsa con le prime produzioni dedicate alle pay tv prima ed ai servizi streaming poi; intestardendosi ad identificare come “cinema” prodotti visibilmente creati ed ottimizzati per i televisori prima e per i digital devices (tablet, smartphones, eccetera) poi. Questa sorta di “onomatopea” è quindi divenuta, impropriamente, comune nell’identificare un qualsiasi tipo di prodotto filmico, visionato in un qualsiasi tipo di modalità. La maggior parte delle quali con il cinema non hanno nulla a che spartire.
Se ci pensiamo bene – del resto – la stessa genesi e complessità nella creazione di “prodotti” dedicati al cinema, quello vero, di per sè esclude a priori l’abuso di terminologia. Film dedicati alle sale vedono budget ben più impegnativi rispetto il resto del mondo “digital”: sia perchè le dimensioni e le caratteristiche delle strutture ben poco perdonano in termini di approssimazione, sia perchè l’introito da esse prodotto è giusto qualche ordine di grandezza superiore. Senza tuttavia scomodare considerazioni di tipo finanziario e pratico, basta pensare con buonsenso alla realtà oggettiva: quale sarebbe il “valore tecnico” aggiunto nel guardare un film 4K nativo in Dolby Atmos, su di un cellulare da 17 cm nel quale – viste le dimensioni – si distinguerebbe a malapena una risoluzione Full HD con un audio stereo? La risposta è semplice quanto disarmante: puro marketing. Vogliamo mettere quanto sia “bello” e “di moda” acquistare un cellulare marchiato Dolby Atmos, rispetto l’estetica “antidiluviana” dei rispettivi 128 diffusori di una sala cinematografica? Che poi si diventi ciechi nel guardarci due ore di film, sentendolo pure malissimo, è cosa del tutto pleonastica. Specialmente per chi lo vende.
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