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PROTOCOL: la stupefacente “creatura sonora” di Simon Phillips

Alta fedeltà e musica da sempre vanno a braccetto, d’altronde sarebbe impossibile in assenza di un impianto Hi-Fi di qualità, riuscire a cogliere le numerose finezze contenute in composizioni spesso complesse, dove sottili dinamiche e variazioni timbriche la fanno da padrone.

È il caso del disco che vi segnaliamo, quinto capitolo – non a caso si intitola semplicemente “V” – di un percorso iniziato molto tempo fa per volontà del virtuoso batterista britannico Simon Phillips.

Era il 1989 quando il nostro mise insieme un manipolo di eccellenti musicisti iniziando a scandagliare gli abissi meno frequentati della fusion, ambito che in determinati casi nasconde godibili sorprese sonore, come nel presente caso, dove allo stucchevole manierismo di certe produzioni passate – fatte spesso di suoni tanto perfetti quanto noiosi – si preferisce un profilo compositivo ben più elevato.

Relativamente a questo stupefacente musicista, vi abbiamo già accennato in occasione della recensione di “Move” eccellente opera della giovane pianista giapponese Hiromi – altro fenomeno dello strumento – che con l’omonimo trio, appunto The Trio Project, non manca di stupirci per la qualità elevatissima delle sue proposte.


Il progetto Protocol è un vero e proprio caleidoscopio di idee musicali trasposte sullo spartito, una miscela esplosiva di jazz, funk, rock, reminiscenze blues, stilemi classici e soprattutto – cosa che a nostro avviso rende irresistibile il sound del gruppo – la notevole energia promanata dai vari pezzi, co-firmati dai vari membri che periodicamente si trovano a far parte dell’ensemble, mai sempre gli stessi, a garanzia di una periodica revisione di quanto proposto.

Una band assai aperta come si definisce in gergo, dove ad un nucleo centrale – in tal caso l’ottimo Phillips ed il robusto Tibbs al basso – si alternano virtuosi dello strumento in grado di fungere da robuste fondamenta all’impalcatura su cui poggiano le composizioni.

Mai banali ovviamente, ma anzi connaturate da strutture piuttosto complesse che malgrado la difficoltà di esecuzione, riescono a non rimanere pesanti o peggio indigeste all’orecchio dell’ascoltatore, pure se questo non ha grande esperienza in materia.

E parlo per esperienza, giacché fatto ascoltare a persone che tutt’altro ascoltano, il presente lavoro ha in ogni caso riscosso successo di critica.

Un quintetto quindi, almeno in questo caso, laddove al funambolico roteare di braccia del nostro si uniscono l’arte pianistica di Otmaro Ruiz, pianista di origine venezuelana che mai indulge eccessivamente in quel ritmo oltremisura latino che alla lunga potrebbe stancare, cui si accosta la notevole arte chitarristica di Alex Sill, il cui apporto è quanto meno basilare, sia per scelte timbriche che per presenza, entrambe ai massimi livelli.

Altro solista di eccellente caratura è il sassofonista, un giovane Jacob Scesney abilissimo nell’incastrarsi a meraviglia tra le pieghe talvolta sghembe di questo non semplice lavoro.

Tra l’altro, lo strumento di cui fa uso è destinatario di un trattamento a base di effetti elettronici che ne snaturano in parte la caratteristica timbrica – tanto che talvolta si fatica a capire che si tratta di un sassofono – ma ciò malgrado, e contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, la cosa non provoca alcun fastidio all’orecchio ne appare come un’inopportuna caricatura, aspetto di non poco conto.

Il basso (elettrico) è meravigliosamente suonato da Ernest Tibbs, musicista dotatissimo con parecchia esperienza sulle spalle: R&B, funk e jazz il suo pane quotidiano, chiaramente intriso di quella spontaneità ritmica caratteristica dei musicisti di colore, in assoluto benedetti da un naturale ed inarrivabile groove nell’espressione conferita al loro strumento.

Ovviamente – ci ricolleghiamo alle prime righe del presente articolo – stante l’elevato valore delle composizioni, non poteva mancare una presa di suono davvero realizzata a mestiere, e d’altronde non potrebbe essere diversamente, poiché in casi come questo la registrazione è in concreto il “componente occulto” del gruppo, quello che mette in risalto oppure abbatte inesorabilmente vanificandolo l’impegno dei compagni.

 

Chi fosse curioso e desiderasse approfondire meglio la conoscenza di questa eccellente formazione, potrebbe successivamente reperire il capitolo II – dove alle tastiere troviamo Steve Weingart ed alla chitarra Andy Timmons – un disco caratterizzato da sonorità forse più digeribili per un orecchio che non sia ben allenato nei confronti di questo genere, a seguire il III – Greg Howe alla chitarra e Dennis Hamm alle tastiere – altro gustoso capitolo di questa notevole saga.

Ovviamente parliamo comunque di jazz elettrico, uno stile musicale che in generale non è pensato per disinvolti ascolti mentre si fa altro, questo è bene saperlo, ma per chi manifestasse interesse il capitolo II rappresenta un ottimo biglietto d’ingresso nello specifico genere.

Come al solito, ottimi ascolti!!!

 

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