Si leggono spesso curiose disamine, veri e propri raffronti, tra la visione al cinema e quella domestica. Un tale confronto ha davvero senso?
Sull’onda dell’attuale “crisi” delle sale – legata principalmente a fattori economici e “finestre spremute” – si è inserito un curioso filone, tipicamente alimentato dall’utenza più smaliziata, volto a proporre il concetto de “il cinema fa schifo, nella mia saletta vedo e sento tutto molto meglio” quale sorta di giustificazione alla suddetta crisi. Partendo comunque dal presupposto che tale tesi non sta in piedi dal punto di vista dei numeri reali – chi è in grado di distinguere tecnicamente ed a ragion veduta è una nicchia della nicchia, essendo il pubblico generalista poco “sensibile” alla qualità assoluta fine a se stessa – proviamo a vedere se un confronto tra le due metodologie di visione abbia un qualche tipo di senso.
Innanzitutto, per condurre un’analisi minimamente credibile, non si può prescindere dal comparare le due tipologie di visione a parità di condizioni al contorno. Vale a dire hardware, ambiente, trattamento e – non ultimo – materiale riprodotto. Già nel caso dell’hardware ci troviamo ad avere a che fare con macchine totalmente diverse, oltre che per tecnologia, per modalità costruttive, affidabilità, costanza nella resa e – ovviamente – costo. Se dal lato video possiamo comunque affermare le apparecchiature domestiche “godano” di una marcia in più, tipicamente per la tecnologia 4K HDR, non va scordato che a livello cinema fanno da coltraltare sistemi ben più complessi, tarati professionalmente, dalla costanza di resa quasi eterna e con dimensioni di visione nettamente superiori.
Un proiettore D-Cinema – incluse le macchine di vecchia generazione – è dimensionato in modo tale da proiettare alla stessa qualità iniziale anche se venisse preso ripetutamente a martellate. Modo pittoresco di esprimere il concetto per cui si immagina di privarlo della manutenzione in modo prolungato o continuativo. Fino ad un certo punto, ovviamente. Per lo stesso motivo le caratteristiche dell’immagine restano invariate nel tempo, avendo egli al suo interno accorgimenti tali da limitare al massimo derive di ogni tipo. A titolo di esempio, se per un sistema domestico dobbiamo provvedere a rifare gamma e colorimetria mediamente ogni 100 ore di lampada, un sistema DCI mantiene una curva gamma “a spada” ed i primari di riferimento anche dopo decine di migliaia di ore. Oltre che decine di cambi lampada. Non a caso il costo del suddetto sistema va dalle 10 alle 20 volte quello di un “omologo” casalingo. Questo vale per la quasi totalità degli impianti storici installati. Se poi ci muoviamo su macchine di ultima generazione – tipo i Sony 4K ma non solo – anche il gap con un 4K HDR domestico si riduce notevolmente.
Un discorso analogo si può applicare al versante audio, ove il cinema conta tipicamente su accoppiate processore + finali del valore fino a (ed oltre) centomila cucuzze. Esempio tipico i processori Dolby Atmos CP850 (e serie successive) che – da soli – arrivano a costare anche 20 mila euro. Un hardware di caratura elevata al quale si aggiungono tarature, trattamenti acustici professionali ed una manutenzione richiesta prossima allo zero. In aggiunta, nei sistemi di sala, è molto difficile – in alcuni casi proprio impossibile – accedere alle configurazioni. Ergo anche le derive causate da inopportuni interventi dell’utenza sono ridotte al minimo.
Il terzo punto è forse il più critico: il materiale che si va a riprodurre. Anche se oramai dal lato video i DCP sono spesso forniti in risoluzione 4K, è la parte audio ad introdurre le differenze più marcate. Mentre in sala arriva audio PCM – a 24 bit ed elevato bitrate – con mix ottimizzato per le dimensioni e gli impianti di sala, in home theater – quando va di lusso – arriva una traccia lossless, usualmente a 16 e molto raramente a 24 bit. Sulla carta identica al master originale, tuttavia – da raffronti ed ascolti fatti – con una gamma dinamica sospettosamente decrementata. Quando invece va male, ovvero nel 90% dei dischi e nel 100% dello streaming, arriva una traccia oscenamente compressa, a 16 bit e con un bitrate compreso tra i 300 e gli 800 kbps. Pesantemente rimaneggiata – vedasi ben noti provider – in termini di gamma dinamica. Da questa differenziazione, per quanto il 4K HDR domestico appaia “acchiappante”, già si capisce che una comparazione tra le due modalità non ha molto significato.
Questo è il motivo per cui certe disamine on-line sembrano più frutto dei gusti del singolo che opinioni suffragate da fatti. Se è pur vero come certe mancanze in sala siano indubbiamente presenti – leggasi lampade tirate all’inverosimile e fuoco non sempre ottimale – è pur vero che l’impostazione globale della visione in sala, per superiorità hardware e software, la rende inarrivabile rispetto la visione casalinga. Per quanto “high-end” sia quest’ultima, infatti, i gap elettronico, ambientale e di materiali in ingresso permangono troppo elevati. Questa è anche la ragione per la quale, nelle nostre recensioni, citiamo molto spesso la resa della visione e dell’ascolto in sala: esse rappresentano – alla fin fine – il riferimento originale cui i riversamenti su disco e streaming vanno necessariamente raffrontati. Del resto chi ritiene che guardando un film nel suo home theater – in Dolby Digital a 640 kbps o peggio – potrà apprezzarlo “come si deve”, ha poca esperienza sul tipo di impianti e sui reali processi in gioco. Indipendentemente da quanto possa essere “seria” la sua installazione domestica.
Volendo tuttavia mettere in dubbio la resa qualitativa di una specifica sala, occorre prima di tutto appurare che le criticità riscontrate siano davvero tali. Ovvero non dipendano dall’impostazione del film stesso. Ecco perchè prima di giungere a conclusioni affrettate, una visione di riscontro in (almeno) un’altra struttura sarebbe cosa buona e giusta. Il tutto per mettersi pure al riparo da granchi colossali: vedasi il caso recente di The Batman e la “moria reputazionale” di svariati cinema. Al netto di problematiche random che possono sempre capitare, ovviamente. Ricordiamo a tal proposito come fuori fuoco ed audio gracchiante siano eventi che – statisticamente – possono presentarsi al pari del “No Signal” quando accendiamo l’impianto a casa. In tali frangenti, trattandosi di criticità risolvibilissime da chiunque, la cosa va subito segnalata al personale. Il quale prontamente metterà le cose a posto. E’ quindi da evitare – comportamento invece normalmente osservato dal pubblico generalista – di stare fermi, lamentandosi e pensando che si risolverà tutto da solo.
99 volte su 100, dopo una seconda visione in diversa struttura, ci si renderà conto che le criticità osservate sono semplicemente limiti o peculiarità del materiale di partenza. Le quali di certo non si risolveranno – anzi – col passaggio alla versione home. Per quanto il proprio impianto sia di livello “superior”. Pur tuttavia, se la concezione di “ben vedere” e/o “ben sentire” si basa esclusivamente su preferenze personali piuttosto che sulla fedeltà al riferimento e l’aderenza al materiale di origine, allora non possiamo che concordare con la superiorità assoluta della visione domestica. Se non altro perché – diversamente che nei cinema – ivi si possono impostare setup audio e video a piacimento, regalando persino ai film muti un canale LFE aggressivo. A quel punto, però, non si pone nemmeno più il problema di dover fare comparazioni.
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