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Il sabato con Diego. LA PROBABILE EVOLUZIONE DELL’AUDIO DI QUALITÀ: LA SPAZIALITÀ DEL SUONO

Ne ha fatta di strada la stereofonia dai tempi in cui fu inventata, soprattutto in relazione alla qualità timbrica, attualmente molto concreta ed in grado di rappresentare adeguatamente la cifra sonora di qualsiasi strumento. Resta in ogni caso il problema della spazialità, un aspetto che fin da subito è stato inquadrato come il principale limite della stereofonia.

L’invenzione di Alan Blumlein ha contribuito notevolmente ad aumentare il realismo della riproduzione sonora, se non dal punto di vista delle caratteristiche timbriche – correlate all’avanzare delle prestazioni sonore del sistema di riproduzione – certamente da quello della spazialità, ovvero della ricostruzione del palcoscenico virtuale dove sono collocati gli esecutori.

Chi abbia avuto modo di ascoltare in un contesto monofonico puro (con un singolo diffusore per intenderci) avrà immediatamente realizzato come le sorgenti sonore fossero praticamente accatastate l’una addosso all’altra.

Al giorno d’oggi diamo per scontate determinate tecnologie ma un tempo non era affatto così – era anzi diffusa proprio tale tipologia di ascolto – tanto che i primi esemplari di “impianto stereofonico” erano composti da due singoli sistemi monofonici accoppiati.


L’ascolto in streaming Bluetooth tramite un singolo diffusore: un salto (all’indietro) nel tempo (?)

 

Col passare del tempo si sarebbe realizzata l’integrazione dei due canali in un singolo telaio ma almeno all’inizio la configurazione era quella.

Le prime registrazioni basavano l’effetto WOW sulla disposizione degli strumenti i quali, più o meno rigidamente relegati sul canale sinistro o su quello destro, fornivano una posizione maggiormente favorendo in qualche modo la spazialità rispetto all’ascolto monofonico.

Non pochi furono gli studi – molto empirici ma in certi casi davvero funzionali – mediante i quali si tentò di aggirare l’ostacolo principale, quello della profondità ma soprattutto dell’altezza e della larghezza dell’immagine stereofonica, ciò che oggi è solitamente definito palcoscenico virtuale.

A tale proposito occorre considerare che se il nostro cervello identifica la provenienza dei suoni nello spazio senza alcun problema – ovviamente in ambito Hi-Fi e non generalmente parlando – la stessa cosa non accade per quanto riguarda l’altezza dello stage, essendo tale caratteristica legata a fattori differenti da ciò che il nostro apparato uditivo ed il nostro cervello mettono in atto mediamente.

In altri articoli abbiamo già affrontato questo tema – che riteniamo assai interessante rispetto alle tante menate che si leggono in giro, se non altro per il concreto apporto all’ascolto – nel tentativo di spiegare (maggiormente a coloro meno addentrati in questo argomento) come funzioni esattamente la percezione sonora.

Un ambito in concreto molto affascinante ed in stretta connessione con le prestazioni che un sistema audio di elevato livello come quello sottostante dovrebbe possedere.

Nel tentativo quindi di renderci utili e non solo diversi, i lettori maggiormente attenti si saranno resi conto che saltuariamente pubblichiamo articoli – qui ad esempio – che in qualche modo spieghino concetti complessi in maniera fruibile.

L’ovvio fine, è quello di contribuire al formarsi di una conoscenza teorica circa quegli aspetti – non sempre secondari – che hanno effettiva influenza sul risultato finale d’ascolto, conoscenza che, opportunamente utilizzata, consente di aggirare le numerose fiabesche narrazioni sempre disponibili nell’immensità della rete.

Almeno per coloro che si ritengono appassionati evoluti e non casuali passanti.

Ad esempio, non molti sanno che circa a metà degli anni ‘80 fu condotto un esperimento teso ad aggirare i limiti della stereofonia classica, ovvero il confinamento del palcoscenico virtuale all’interno dei limiti occupati dai diffusori, aspetto che circoscrive la disposizione spaziale degli esecutori.

I diffusori BOSE 901: una delle maggiori espressioni della ricerca della spazialità nella riproduzione

 

Qualcosa di parecchio diverso dal trattamento elettronico o acustico del segnale messo in opera da alcuni costruttori – CARVER, BOSE, POLK AUDIO, DBX, AR, tanto per citare qualcuno tra i più convinti sostenitori – un sistema che però, pur funzionante, richiedeva una profonda revisione delle tecniche di ripresa.

Sebbene l’effetto stereo sia certamente interessante, il principio cui si ispirava il sistema messo a punto per scopi di ricerca prendeva spunto dalla naturale monofonia, anche perché in natura non esistono sorgenti stereofoniche.

In effetti, sebbene possa sembrare strano, l’ascolto di uno strumento riprodotto attraverso un singolo diffusore, appare molto più realistico rispetto alla sorgente fantasma che si produce al centro della coppia che normalmente si utilizza nell’ascolto stereofonico.

Partendo da questa constatazione – anche per questioni di praticità – furono realizzati tre diffusori ciascuno ottimizzato in relazione alle specifiche frequenze dello strumento che doveva riprodurre, diffusori che furono disposti esattamente come si sarebbe trovato un trio jazz standard: batteria sullo sfondo, contrabbasso a destra e pianoforte a sinistra, questi ultimi due avanzati rispetto al diffusore che si occupava di riprodurre la batteria.

L’esperimento prevedeva che ciascun diffusore riproducesse solo uno strumento senza alcuna contaminazione, solo ed esclusivamente lo strumento di competenza, molto diverso dalla classica riproduzione a due canali dove gli strumenti sono miscelati tra loro in sala d’incisione.

Ebbene, l’ascolto mise immediatamente in chiaro come attraverso una simile disposizione – unita ad una registrazione ed un sistema di riproduzione appositamente realizzati – il realismo sonoro e il senso di spazialità fossero concretamente pressoché sovrapponibili all’evento reale.

Una delle migliori compagini orchestrali esistenti: i Berliner Philharmoniker

 

Ovviamente si trattava di verificare un’intuizione, anche perché è in assoluto impossibile dedicare un diffusore ad ogni strumento – si pensi ad una grande orchestra! – ma ciò non di meno il test dimostrava che questa era esatta.

Attualmente la ricerca pertinente la spazialità del suono – prescindendo da certi artifici sonori elettronici assolutamente innaturali – ha portato alla conclusione che per ricreare un campo sonoro adeguato occorrerebbero almeno 64 diffusori con una disposizione ambientale piuttosto particolare; in altre parole dovremmo essere letteralmente circondati dal sistema di diffusione sonora.

Ovviamente non è minimamente possibile ipotizzare l’uso casalingo di una simile configurazione, ma di nuovo questo lascia intendere come l’esperimento dell’epoca fosse molto avanzato.

I più curiosi tra i nostri lettori si saranno certamente imbattuti in qualche file reperibile in rete dove si parla di Audio Spaziale 3D oppure in quello che SONY definisce 360 Reality Audio oppure ancora, il sistema AURO 3D.

La nota testa NEUMANN: sistema microfonico espressamente pensato per l’audio binaurale

 

Si tratta di sistemi eminentemente dedicati all’ascolto in cuffia, anche perché questa tipologia di ascolto pare prestarsi meglio dei diffusori nel riprodurre l’effetto spaziale, resta in ogni caso una sensazione di artificiosità notevole, in determinati casi letteralmente da mal di testa.

Potrebbe essere questo il futuro dell’audio di elevata qualità? Staremo a vedere.

Come al solito, ottimi ascolti!!!

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